Se ne vedono sempre di più sui corpi dei giovani. Hanno forme, colori e dimensioni diverse, ma i tatuaggi sono di gran moda ed è sempre più difficile incontrare un giovane che non ne sfoggi uno in qualche parte del corpo. Un fenomeno mondiale che si estende fino ai trentenni e quarantenni. Ma l’arte di dipingersi il corpo non è una novità, ha anzi origini antichissime. “La mummia di Similaun, il nostro antenato Oetzi, ne aveva più d’uno”, sottolinea Sveva Avveduto, dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr.
Ciò che davvero si rinnova di continuo sono i connotati che assume questa particolare pratica che, nel corso della sua storia, ha assunto sia accezioni positive, che l’hanno consacrata a forma d’arte, viatico e strumento di contiguità nei confronti del mondo divino, simboli di forza o virilità, ma molto più frequentemente accezioni negative.
“Cesare Lombroso era così attento allo studio dei tatuaggi, a suo modo ovviamente, da aver lasciato un archivio fotografico estesissimo di corpi tatuati: egli sosteneva, infatti, che il tatuaggio compare solo nelle infime classi sociali, nei contadini, nei marinai, pastori, soldati e soprattutto nei delinquenti, di cui esso costituisce un nuovo carattere anatomico e legale”, continua Avveduto. “La negatività del tatuaggio appartiene sia alla cultura giudaico-cristiana (è esplicitamente proibito dalla Bibbia nel Levitico) sia a quella musulmana. L’Oriente è invece il suo regno: fin dai tempi antichissimi viene praticato in molte forme, rituali e non, e viene introdotto in Europa con i viaggi di Cook. Anche i gruppi etnici africani conservano la tradizione della pittura corporea con tenacia e ostinazione, sfidando le mode contemporanee”.
Oltre alle molteplici connotazioni che può avere questa pratica, sono interessanti anche le motivazioni che spingono le persone a infliggersi la sofferenza connessa a un ‘marchio’ quasi indelebile disegnato sul proprio corpo. Per coglierne il senso profondo ci si può rivolgere a varie fonti, dagli studi antropologici alla psicologia, dalla sociologia all’analisi dei fenomeni di costume e delle mode. L’antropologo si appella alle ancestrali radici dei riti tribali e sacri. “Tatuarsi indica in molte culture il simbolo della appartenenza a un clan, a una stirpe, oppure è una pratica utilizzata a scopi medico-curativi”, conclude la ricercatrice dell’Irpps-Cnr. “Il sociologo ne sottolinea la funzione di indice di appartenenza, ma a una comunità socialmente costruita e ben circoscritta, un mezzo che serve a segnalare l’appartenenza, così come a marcare la distanza dell’individuo, a farsi parte di un gruppo e quindi contemporaneamente ad escludersi da tutti gli altri. La psicologia ci aiuta a capire come il tatuaggio porti fuori qualcosa che si nasconde dentro, vuole essere il simbolo della nostra unicità, ma anche ci indica come la scelta dell’oggetto da farsi tatuare, così come della parte del corpo da tatuare (ad esempio se nascosta o visibile a tutti) sia indicativa di ragioni e pulsioni molto differenti. Ci sono infine elementi legati alla moda (anche in questo caso la molla dell’appartenenza/esclusione è la medesima) e l’esibizione di tatuaggi da parte di personaggi popolari dello spettacolo o dello sport induce di certo molti a volerne imitare il comportamento”.
© Almanacco della Scienza