di Alessia Addari
Per gli addetti ai lavori l’obesità è un fenomeno “epidemico” paragonabile per velocità di diffusione a una malattia infettiva incontrollata, dovuta alla combinazione tra presupposti genetici, ambientali, fisici e psicologici, che ne fanno la più comune patologia cronica del mondo occidentale. “Già nel 2006 (dati Istat), in Italia, la popolazione adulta obesa era pari al 10,2%, cui si aggiungeva il 35% di quella sovrappeso. Il grido di allarme era ed è soprattutto per l’obesità in età pediatrica, tenendo presente che le evidenze scientifiche riconoscono alla patologia “giovanile” una forte capacità predittiva dello sviluppo in età adulta. Solo negli anni 1999-2000 la quota di ragazzi tra i 6 e i 17 anni in eccesso ponderale era pari al 24,1%, pari a circa ”1 milione e 700 mila individui”. Sono questi i primi i dati citati dal Professor Roberto Vettor, ordinario di Medicina Interna all’Università degli studi di Padova e Presidente della Società Italiana dell’Obesità nel corso del Congresso Nazionale di Endocrinologia. “L’obesità – ha spiegato – è divenuta uno dei maggiori problemi di salute del secolo sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. L’Italia si pone tra i primi Paesi in Europa per numero di soggetti coinvolti. Non possiamo considerare l’obesità un banale problema estetico favorendo così il proliferare di terapie e trattamenti clinici spesso inadeguati e il più delle volte somministrati da figure professionali prive delle giuste competenze. La patologia – secondo Vettor – costituisce un serio fattore di rischio per mortalità e morbilità e ad essa si associano di frequente altre patologie, come diabete mellito, ipertensione arteriosa, dislipidemia e osteoartrosi. Per quanto riguarda le neoplasie – ha aggiunto – recenti studi hanno dimostrato un aumento del rischio nel paziente obeso soprattutto per endometrio, mammella, prostata e colon. Questo scenario pandemico deve indirizzare gli sforzi verso una prevenzione efficace, senza la quale ogni mezzo terapeutico risulterebbe vano anche se impiegato su vasta scala”. L’approccio più efficace a questa vera e propria pandemia, per il Presidente della Società italiana di Obesità, sarebbe rappresentato dalla chirurgia bariatrica, una delle tecniche più efficaci per ottenere e mantenere nel tempo un significativo calo di peso e per ridurre i rischi di mortalità del paziente obeso (aumentati negli ultimi anni). “È stato dimostrato – ha spiegato Vettor – che il calo ponderale conseguente a trattamenti di chirurgia bariatrica contribuisce a ridurre il numero di infarti del miocardio, ad ottenere una remissione del diabete di tipo 2 e a diminuire il numero di malattie neoplastiche nel sesso femminile. Gli interventi chirurgici, in questo caso, possono essere distinti in due gruppi principali: uno di tipo restrittivo, finalizzato alla riduzione della capacità dello stomaco, e uno di tipo malassorbitivo, allo scopo di diminuire l’assorbimento dei nutrienti”. Trattamenti medico-chirurgici di questo tipo non sono certo la prima tappa da affrontare per ogni tipo di obesità: la chirurgia bariatrica è infatti considerata, al momento, una terapia rivolta esclusivamente ad obesità di secondo livello, da valutare inoltre solo dopo il fallimento del trattamento medico e solo nei casi di obesità grave (pazienti con un indice di massa corporea maggiore di 40 kg/m2 o maggiore di 35kg/ m2 se accompagnato da patologie associate). Essa necessita di un attento inquadramento clinico del paziente, indispensabile a valutare il rapporto rischio/ beneficio e la capacità di collaborare al rispetto dei regimi dietetici post operatori. “L’intervento chirurgico – ha sottolineato Roberto Vettor – deve essere considerato l’inizio di un percorso terapeutico e non la fine. Inoltre, il supporto psicologico e nutrizionale sono fondamentali nella gestione del paziente sottoposto a intervento di chirurgia bariatrica, anche perché spesso è necessaria una cura integrativa a base di vitamine e oligoelementi per scongiurare eventuali deficit alimentari”.