Ad oggi, possiamo affermare con certezza che la vitamina D va somministrata ad individui
a rischio di carenza, con dosaggi capaci di correggere il metabolismo fosfo-calcico. Sono
però da evitare eccessi sia nella quantità, sia nel numero delle applicazioni che esulino da
tali indicazioni d’uso di questo importantissimo ormone.
Il ruolo svolto da questa vitamina è fondamentale per il mantenimento della
salute dello scheletro, perché il suo compito è quello di favorire l’assorbimento
del calcio da parte di intestino e reni: calcio che il nostro organismo utilizzerà
principalmente per la costruzione e il mantenimento in buona salute delle ossa.
La cosiddetta vitamina D è in realtà un ormone prodotto dalla pelle in seguito
all’esposizione al sole e, a differenza delle altre vitamine, l’apporto derivante
dall’alimentazione è trascurabile. Ecco perché un livello ottimale di vitamina D è
funzionale al mantenimento della salute delle ossa, e perché le organizzazioni che
si occupano della promozione della salute dello scheletro e della lotta all’osteoporosi
raccomandano supplementi calibrati di questa vitamina agli individui ad alto
rischio di frattura di fragilità che ne presentino livelli troppo bassi.
Negli ultimi tempi però si vanno sempre più diffondendo dati relativi a possibili
effetti positivi legati alla supplementazione di vitamina D, anche relativamente
ad altre patologie croniche di ambito extrascheletrico. Per questo motivo i
rappresentanti della massima società europea che si occupa di studi clinici
su osteoporosi e osteoartrite (ESCEO) insieme a FIRMO (Fondazione Italiana
Ricerca sulle Malattie dell’Osso), hanno composto un gruppo di studio che ha
intrapreso una revisione sistematica delle evidenze relative agli effetti positivi della
vitamina D in ambito di malattie croniche extrascheletriche, con l’obiettivo di fornire
linee guida per studi futuri nel settore. Abbiamo dunque chiesto alla
Professoressa Maria Luisa Brandi, Segretaria Generale di ESCEO,
Professore Ordinario di Endocrinologia dell’Università di Firenze e Presidente
di FIRMO, quali sono stati i risultati dello studio.
“Si sa, la possibilità di trovare una panacea per tutti i mali è una suggestione
fortissima, ma il nostro compito, come scienziati, è quello di verificare se
è come le speranze riposte in una cura siano documentabili o meno. Le
conclusioni dell’analisi compiuta ci hanno chiaramente dimostrato che, al
momento, le sperimentazioni cliniche disponibili hanno mostrato risultati ancora
insufficienti.
Mancano ancora test necessariamente ampi e circostanziati, – afferma la
Professoressa Brandi – tali da poterci confermare la reale efficacia di tali
supplementi sulle malattie croniche extrascheletriche. Inoltre anche il
dosaggio usato per queste malattie, ben superiore a quello normalmente
somministrato per la salute dello scheletro, deve ancora dare prova
della sua innocuità. Anche gli studi, finora promettenti, relativi ad effetti
sulle malattie autoimmuni (compresi il diabete di tipo 1, la sclerosi multipla e il
lupus eritematoso sistemico), i disturbi cardiovascolari e la riduzione complessiva
della mortalità, devono essere confermati.
Un punto critico è rappresentato dalla mancanza di conoscenza dei dosaggi
necessari per la prevenzione di malattie croniche, – conclude la Brandi – a parte
la fragilità ossea, visto che quanto raccomandiamo si basa sulle conoscenze
accumulate per il metabolismo osseo e la prevenzione delle fratture”.
Pare infatti che per prevenire malattie croniche che oggi si affacciano
all’orizzonte occorrerebbero dosaggi molto più alti, con potenziali effetti
indesiderati a lungo termine.
Questo non significa voler smentire la possibile efficacia del supplemento
di vitamina D anche per altri ambiti di cura, ma vogliamo mettere in guardia
da troppo facili entusiasmi riguardo a terapie che non hanno ancora provato
né la loro efficacia, né la loro innocuità a dosaggi diversi da quelli raccomandati per
contrastare le fratture da fragilità.