Uno studio pilota condotto dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano ha dimostrato che l’aggressività del melanoma è legata alla risposta del nostro sistema immunitario: una molecola, presente nelle cellule immunitarie dei linfonodi sentinella è in grado di dire se il paziente è esposto al rischio di recidive a 5 anni dalla diagnosi.
Nei pazienti affetti da melanoma l’analisi molecolare dei “linfonodi
sentinella” (i linfonodi più vicini all’area del tumore e più a rischio di metastasi)
può identificare i casi a maggior rischio di recidiva nei 5 anni
successivi all’intervento chirurgico di rimozione dello stesso.
Queste informazioni non vengono dal tumore ma dalle nostre
difese immunitarie. è questa la novità di uno studio pilota condotto
dal gruppo di ricerca guidato da Monica Rodolfo, biologa
dell’Unità di Immunoterapia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di
Milano, pubblicato sulla rivista scientifica Cancer Research. Lo
studio, basato sull’analisi dei profili di espressione genica in
biopsie di linfonodo sentinella di pazienti con melanoma, il tumore
della pelle più pericoloso, dimostra come l’aggressività della
malattia, che determina se il paziente sarà guarito dopo la
chirurgia o avrà una successiva recidiva, non dipende dalle
caratteristiche del tumore bensì da quelle della risposta
immunitaria. Un risultato che testimonia che le nostre difese
immunitarie sono in grado di condizionare il decorso della
malattia anche nel caso dei tumori.
Tra i marcatori identificati nello studio vi è la molecola CD30, che
risulta più espressa nelle cellule immunitarie linfonodali e in
quelle circolanti dei pazienti con malattia aggressiva. Queste
cellule mostrano una funzione alterata e sono segno di
immunosoppressione o di esaurimento dell’immunità antitumore.
<Questo studio – commenta Marco Pierotti direttore scientifico
dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – si colloca nella
tradizione di ricerca immunologica e di immunoterapia dei tumori,
caratteristica di questo Istituto, ma integrata da innovativi approcci
molecolari volti a comprendere i complessi rapporti che si
instaurano tra il tumore e l’organismo che lo ospita. Riconoscere in
ciascun paziente se il suo sistema immunitario reagisce al
melanoma o lo subisce, consentirà di modulare gli interventi per
ottimizzare efficacia terapeutica e corretta allocazione di risorse
economiche>.
Lo sviluppo clinico di queste informazioni potrebbe consentire di
identificare quali pazienti, dopo l’intervento chirurgico, abbiano un
elevato rischio di recidiva e necessitino quindi di ulteriori terapie,
evitando invece un trattamento inutile e tossico ai pazienti guariti
dalla chirurgia.
<La molecola CD30 – spiega Monica Rodolfo – potrebbe diventare
un nuovo bersaglio terapeutico per i pazienti con melanoma.
Essendo già disponibili farmaci che agiscono su questo marcatore
CD30, è possibile immaginare che questa nuova strategia
terapeutica possa essere studiata nei pazienti in tempi
relativamente brevi>.
Lo studio pilota ha esaminato con analisi di genomica i linfonodi
sentinella di 42 pazienti affetti da melanoma con differente
aggressività della malattia. I ricercatori miravano a identificare
biomarcatori in grado di individuare i pazienti ad alto rischio di
recidive del tumore. Per fare questo hanno confrontato i linfonodi
sentinella di pazienti in cui il tumore aveva avuto una recidiva con
quelli di pazienti senza recidiva fino a cinque anni dopo la
rimozione chirurgica del tumore primario. In aggiunta i ricercatori
hanno raccolto campioni di sangue da 25 pazienti con melanoma di
stadio 3 e 4 e li hanno comparati con quelli di donatori sani
combinati per età e sesso.Il team di ricerca ha scoperto che il
linfonodo sentinella dei pazienti con recidiva dopo cinque anni
presentava cellule immunitarie con alterazione dell’espressione di
geni coinvolti nei processi di sopravvivenza, proliferazione e
metabolismo cellulare. I ricercatori hanno trovato inoltre che le
cellule con immunitarie positive per il marcatore CD30 erano più
espresse nei linfonodi sentinella dei pazienti con recidiva del
tumore e in quelli con stadio della malattia avanzato. Lo studio è
stato finanziato dall’Associazione Italiana per la ricerca sul
Cancro (AIRC) e dal Ministero della Salute.