Se si deve ricorrere al proibizionismo significa che abbiamo fallito nella nostra azione educativa
Vorrei che si riaprisse anche in Italia il dibattito per la liberalizzazione delle droghe leggere. È arrivato il momento di superare le barriere ideologiche e ammettere che proibire non serve a ridurre il consumo. La sentenza della Consulta, che dichiara incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, dimostra, ancora una volta, la visione civilmente più avanzata dei nostri giudici rispetto al Parlamento. Con la bocciatura della legge, che equiparava droghe pesanti e leggere e prevedeva pene fino ad 20 anni di reclusione, si è calcolato che le condanne dovranno essere riviste per 10.000 detenuti, perché connesse all’uso di droghe leggere, dunque per reati di lieve entità. È un numero enorme, che corrisponde quasi alla metà di tutti i reclusi per droga, complessivamente circa il 40% dei carcerati. Ora, si stima che circa il 50% dei nostri giovani faccia uso di cannabis, oltre a molti adulti. Significa che metà dei giovani italiani è criminale? Se fosse così, ci sarebbe un motivo in più per ritenere la Fini-Giovanardi un totale fallimento. Mettere sullo stesso piano droghe leggere e pesanti è antiscientifico.
Lo spinello è considerato dai giovani una droga “ludica” ed innocua e vietarlo serve solo a stimolare la loro propensione alla trasgressione. Ben diverso è il contesto di chi affonda nell’eroina fino a rischiare la vita. E se anche pensiamo che la cannabis sia l’anticamera di sostanze più pericolose, davvero crediamo che penalizzando il possesso di una dose possiamo interrompere la spirale di angoscia esistenziale che porta al baratro mortale della droga pesante? I dati ci dicono di no. Se fosse vero, le statistiche non mostrerebbero circa 200mila dipendenti da droghe pesanti in Italia, più o meno come 10 anni fa. Rendere la cannabis un tabù o un piccolo crimine non serve affatto ad affrontare il problema.
Se si deve ricorrere alla proibizione, significa che abbiamo fallito nella nostra azione educativa. La droga è un problema più sociale e culturale, che penale e una legge che impone sanzioni pesanti o addirittura la prigione non può risolverlo. Dobbiamo renderci conto che se rendiamo criminali i consumatori di droga, li obblighiamo soltanto ad uscire dalla legalità e dal controllo, senza che smettano di drogarsi.
Del resto le esperienze di paesi europei come la Svizzera, l’Olanda e recentemente il Portogallo, che hanno adottato politiche di liberalizzazione nei confronti della droga, parlano chiaro: se liberalizziamo la droga, non ne aumentiamo l’uso, riduciamo invece la mortalità da overdose e la criminalità collegato alla produzione e allo spaccio. Secondo molti esperti la liberalizzazione estesa metterebbe in ginocchio i grandi trafficanti e le economie che si basano sul narcotraffico come quella talebana in Afganistan e quella colombiana in Sud America. Da noi, la mafia. Sono nato nel 1925, a Milano, non ho mai vissuto altrove. Posso quindi testimoniare che sin dal secondo dopo guerra sento parlare di lotta alla mafia da parte di tutti i governi, senza aver mai visto un minimo risultato. Io credo che per togliere potere alla mafia bisogna “tagliarle gli alimenti” e il suo sostentamento principale è senza dubbio il traffico illegale di droga. Cito sempre l’esperienza americana degli anni ’20: in soli tredici anni di divieto di consumo di alcol fiorirono in maniera esponenziale il consumo clandestino, il mercato nero gestito da bande criminali e il costo dell’alcol che faceva da volano alla criminalità. Si calcola che la mafia incassi per la droga circa 60 miliardi di euro ogni anno. Un giovane che cade nella “dipendenza”, se non è ricco, ha solo tre possibilità per procurarsi una dose: rubare, prostituirsi o spacciare. In ogni caso diventa un fuori legge.
Ma se proibire è deleterio, legalizzare non basta. Bisogna educare e trasmettere il principio non che la droga è illegale, ma che ha un valore socialmente e individualmente negativo, informando tutti, a partire dalle scuole, sui rischi reali per la salute. Basta con le demonizzazioni quindi. È anche il momento per ridare alla cannabis lo spazio che merita nella cura del dolore. Già molte regioni hanno reso accessibile la cannabis ad uso terapeutico. È assurdo, per il resto del Paese, rinunciare ad un potente antidolorifico solo perché ha la “colpa” di essere anche una sostanza stupefacente. Il dolore è il più grande nemico dei malati, annienta la loro dignità, spegne le loro energia e la volontà di combattere. Il dolore va affrontato con ogni mezzo a nostra disposizione. Anche con la cannabis.
di UMBERTO VERONESI © La Repubblica