Uomini e donne non sono uguali nella depressione. Esiste addirittura una “fotografia” che mostra la differenza. «In una corsia maschile del settore psichiatrico si vedono i ricoverati ciascuno isolato nel suo letto, intento al computer o alla radiolina o che guarda il soffitto; nel reparto donne, le si vedono sedute sui letti che fanno gruppo, si raccontano a vicenda, si scambiano pareri e altre storie». A spiegarlo è il professor Massimo Biondi, ordinario di psichiatria e direttore del Dipartimento di Scienze psichiatriche e Medicina psicologica dell’Università La Sapienza di Roma, chiamato a commentare i risultati di una nuova ricerca sulle cause scatenanti di depressione e ansia in maschi e femmine. Cause che risultano in parte differenti, come diversi sono notoriamente alcuni sintomi e, molto, l’incidenza.
COPPIE DI GEMELLI – Kenneth Kendler, professore di psichiatria e di genetica alla Virginia Commonwealth University, ha preso sotto esame le vicende di 1.057coppie di gemelli dizigoti di cui uno maschio e l’altro femmina e li ha confrontati, dinanzi all’avverarsi di una depressione, con 20 fattori di rischio. Ha constatato, così, che ben 11 dei 20 elementi non coincidevano. Per le donne, a innescare o no una caduta d’umore patologica contano di più il calore dei genitori, il neuroticismo, il divorzio, i supporti (e rapporti) sociali mentre sugli uomini hanno effetti negativi soprattutto gli abusi sessuali nell’infanzia, l’uso di droghe, il disturbo della condotta, precedenti di depressione maggiore, eventi della vita di forte stress soprattutto in ambito finanziario o riguardante il posto di lavoro o, ancora, d’ordine legale.
Il professor Kendler annota che forse la diversa eziologia di un disturbo dell’umore in donne e uomini potrebbe spiegare una diversa risposta alla psicoterapia dei due generi, «ma questa è una domanda per ora senza risposta».
DIVERSE RISPOSTE ALLO STRESS – Riprende Biondi: «Di base, prima della malattia, ci sono nei due sessi un diverso assetto degli ormoni e dei neurotrasmettitori, una diversa situazione antropologica e sociale. E’ interessante lo stile di fronte allo stress: l’uomo lo affronta da solo, prende il problema per le corna, insomma impugna la clava. La donna tende a condividere, in genere con le compagne, ha una notevole abilità ad appoggiarsi a una rete sociale, quindi è più resiliente. Questa è una strategia millenaria che dà un’arma in più alle femmine».
Resta, però, che le donne risultano soffrire di depressione il doppio degli uomini, in Italia il 15 per cento contro il 7,2. «Certo, ma ci si chiede anche se le femmine non risultino di più perché lo dicono di più, sono più comunicative, chiedono di più aiuto. I maschi, invece, dopo una ferita tendono a chiudersi e a rispondere con l’aggressività, l’impulsività, il ricorso a sostanze, quando non con comportamenti antisociali».
PER I MASCHI UN TEST A PARTE? – Tutti sintomi più esternalizzanti che hanno indotto i ricercatori della Michigan University, l’anno scorso, a creare una specifica scala, o test, per misurare i sintomi maschili della depressione. La consueta lista dei segnali di depressione potrebbe – questa l’ipotesi – far sfuggire molti casi patologici maschili.
DA NOI LA FAMIGLIA AIUTA – In aggiunta a questi dubbi, il professor Massimo Biondi ne avanza un altro, basilare: «Tutto quanto sopra è vero nella società anglo-americana. Ma nella realtà latina o giapponese o indiana? Si possono trasportare gli stessi risultati in una diversa cultura e società? Per esempio, da noi la famiglia continua a essere più importante che in altri paesi, c’è meno mobilità, quindi meno separazioni nello spazio delle parentele, fatto che avrà dei difetti, ma ha pure il pregio di offrire una maggiore protezione. I cosiddetti “bamboccioni” ricevono dalla famiglia il sostegno dei soldi, ma anche un di più affettivo e protettivo. Perché si trovano dentro una rete che gli dà – anche se sono senza lavoro, e dunque senza il conseguente ruolo – un’appartenenza e un ruolo che rappresentano un rinforzo. In effetti, dai dati Istat, come tassi di prevalenza di depressione e suicidi, l’Italia non va male, nel senso che abbiamo percentuali un po’ più basse che in altri paesi. Credo si debba ai legami più intensi con la famiglia e la comunità».
Fonte Fondazione Veronesi ©