Intervista al Professor Giustino Parruti dell’8 marzo 2021
di RAFFAELLA QUIETI CARTLEDGE
Direttore della Uoc Malattie Infettive dell’Ospedale di Pescara, Il prof. Giustino Parruti fa il punto sugli interventi terapeutici che funzionano e sulle strategie che bisogna adottare per sconfiggere il virus
Professor Parruti, cosa ci ha insegnato un anno di lotta contro il Covid-19?
Il virus si è evoluto e si evolve quotidianamente anche come patogenesi, con conseguenze importanti sulla gravità che la malattia determina. Molti segmenti di evidenza, raccolti su piccoli numeri con una sola variante, sono stati spesso contraddetti dall’ampliamento delle osservazioni all’evolvere di tutte le altre circostanze e il diffondersi delle nuove varianti. Il concetto che traspare con più chiarezza è quello che il tracciamento territoriale deve essere il più precoce possibile, in modo da aumentare la possibilità di bloccare l’evoluzione della malattia nei pazienti fragili a maggior rischio.
Gli strumenti efficaci che abbiamo sono: l’utilizzo precoce, su pazienti a rischio, del plasma iperimmune (New England Journal of Medicine, Febbraio 2021). Questo plasma viene raccolto oggi dai convalescenti ma potrà essere anche raccolto dai vaccinati nel prossimo futuro, e costituisce una fonte potente di immunità trasferibile da chi ha avuto la malattia a chi non deve svilupparla. Il secondo strumento efficace è un cocktail di anticorpi monoclonali anti Sars-Cov2 sintetici, che possono prevenire l’evoluzione della malattia quando tempestivamente somministrati alle persone a rischio. Si tratta di una terapia molto specifica, con delle buone percentuali di successo, poiché appositamente costruita attorno al virus, ma con un’efficacia certa solo nelle fasi molto iniziali di infezione, come già accennato.
La tempistica degli interventi terapeutici è quindi la chiave della loro efficacia?
La maggior parte degli interventi che possiamo fare oggi sono tempo-dipendenti. Effettuando un tracciamento precoce possiamo prendere presto in carico pazienti nell’ambito dell’evoluzione della loro storia sintomatologica. Quanto più appropriatamente vengono posti in essere nella sequenza temporale, tanto più c’è la possibilità che i trattamenti disponibili funzionino. Nel paziente tracciato che rimane a domicilio, la prima cosa che dobbiamo fare è evitare il fenomeno della cosiddetta ‘ipossiemia silente’, cioè una bassa ossigenazione del sangue da lesioni ai polmoni, in assenza di crisi respiratorie franche.
Può succedere infatti che il paziente iperventili ma non percepisca la difficoltà respiratoria, quindi il monitoraggio, che permette l’intervento al momento giusto, diventa essenziale. Tale monitoraggio può avvenire osservando il livello di saturazione e misurando la frequenza respiratoria o, se il paziente si trova presso il nostro presidio, tramite apparecchiature come il NEWS 2 (National Early Warning Score 2).
Il paziente seguito precocemente che raggiunge uno stato di ipossiemia deve essere posto sotto ossigeno-terapia. Questa terapia, se iniziata precocemente, riduce anche il danno polmonare, diventando quindi non solo un supporto che permette di respirare ma anche una cura. Sul territorio a volte si aspetta di avere pazienti con saturazione a 90-91%, con frequenze respiratorie non accuratamente misurate, correndo forti rischi di progressione della malattia polmonare.
Il tracciamento precoce è ben documentato anche nel caso di utilizzo dei bloccanti del recettore di interleuchina 6, una molecola che regola la risposta infiammatoria (Tocilizumab e Sarilumab) e dell’antivirale Remdesivir. La loro finestra di efficacia è legata ad insufficienza respiratoria moderata, entro l’ottavo giorno di insorgenza dei sintomi.
Quando abbiamo evidenza che paziente stia sviluppando la polmonite da Covid, dobbiamo giocarci le nostre armi immediatamente, perché il vantaggio della strategia dell’intervento tempestivo si è rivelato nettamente superiore.
In ambito di trattamento ospedaliero quale tipo di monitoraggio viene effettuato?
Nel nostro presidio, a giorni alterni, verifichiamo anche altri parametri immunologici: la ferritina, la procalcitonina, l’Interleuchina 6 e la proteina C reattiva. Se il paziente viene monitorato frequentemente, possiamo evitare di dare antibiotici di copertura. Il paramentro della procalcitonina ci permette di verificare eventuali sovrainfezioni batteriche: controllata a giorni alterni, se rimane inferiore a 0.1 ng/mL, sappiamo che non si è verificata sovrapposizione batterica e quindi l’antibiotico non è necessario. In mancanza di necessità terapeutica, l’unico effetto dell’antibiotico sarebbe quello di danneggiare il nostro microbiota, cioè i batteri che popolano il nostro intestino. I batteri benefici che abbiamo nel nostro intestino, infatti, sono molto utili al sistema immunitario, oltre a contribuire al controllo delle reazioni pro-infiammatorie. Nel caso di necessità di intubare il paziente, un microbiota sano può dare un contributo decisivo al sistema immunitario. Si tratta di un’esperienza che ci ha dato grandi soddisfazioni, sulla quale pubblicheremo adeguatamente quando avremo un po’ più di calma.
Nei casi di insufficienza respiratoria lieve/moderata, o anche severa, ma responsiva agli alti flussi di ossigeno modificati con basse pressioni di teleespirazione, utilizziamo la un moderno dispositivo di supplementazione, l’AIRVO, che migliora gli scambi e riduce la frequenza respiratoria, modulando l’ossigeno, i flussi e la pressione teleespiratoria conseguente. Questa attrezzatura ci permette di diminuire lentamente l’ossigeno somministrato al paziente in fase di miglioramento, approccio molto utile per chi ha fibrosi o patologie polmonari preesistenti.
Quando il supporto non-invasivo alla respirazione non è efficace, bisogna progredire all’intubazione il più presto possibile.
Quali sono i rischi che corrono i pazienti che vengono intubati, oltre alla tempesta infiammatoria provocata dal Covid?
Se intubato, il paziente che arriva in rianimazione è ad altissimo rischio di sviluppare ulteriori infezioni batteriche e virali. Insieme ai colleghi della Rianimazione, monitoriamo due volte a settimana tutti i virus erpetici: il citomegalovirus e l’Herpes Simplex 1 si riattivano infatti molto frequentemente. Facciamo campionamenti microbiologici a giorni alterni e anche il tampone nasale per verificare la presenza dello Stafilococco aureo meticillino-resistente, una tipologia di stafilococco che ha sviluppato resistenza ai più comuni antibiotici ed è molto patogeno. Rispondiamo quindi meglio alle infezioni sovrapposte, che potrebbero provocare sepsi potenzialmente fulminanti. Ma la fase della ventilazione invasiva rimane delicata e frustrante, date le potenziali evoluzioni iperfulminanti, che si infilano anche nelle maglie strette del nostro monitoraggio.
La malattia può rivelarsi infatti in alcuni casi molto pericolosa perché abbassa i linfociti che, se scendono sotto determinati livelli, causano un’attivazione incontrollata di citochine infiammatorie. Questa attivazione incontrollata può portare alla sindrome da distress respiratorio, necessitando della terapia intensiva con ventilazione meccanica. Nei casi peggiori, quantità particolarmente elevate di citochine infiammatorie raggiungono e colpiscono anche gli altri organi, provocando la sindrome da disfunzione multiorgano, che diminuisce drammaticamente la probabilità di sopravvivenza.
Professor Parruti, ci ha parlato dei pericoli di un utilizzo ingiustificato di antibiotici. Cosa può dirci sull’utilizzo del cortisone?
Abbiamo imparato che il cortisone non va utilizzato nella fase precedente all’insufficienza respiratoria. C’è stato e persiste un eccesso dell’utilizzo di cortisone che provoca un aumento della glicemia. La disglicemia è la principale causa di perdita di efficienza di immunità innata, quell’immunità che blocca lo sviluppo della malattia che dal naso progredisce ad infezione sistemica. Ma è difficile di fermare la mano di chi prescrive il cortisone pensando sia utile nella prevenzione. Il cortisone non va quindi prescritto in anticipo perché allunga la durata dell’infezione e ne aumenta la patogenicità.
Naturalmente, in presenza di insufficienza respiratoria severa come nei casi attuali di variante inglese, il cortisone deve essere utilizzato nel dosaggio corretto. Il mio team utilizza 6-8 mg di desametasone al giorno, in pazienti con quadri polmonari di rilievo.
Prof. Parruti, può fare chiarezza sull’efficacia dei vaccini contro le varianti e sulla necessità di eventuali richiami periodici?
Abbiamo constatato come, contrariamente ad altri virus, il vaccino del Covid-19 dia un’immunità molto superiore a quella acquisita naturalmente. Negli stati dove c’è stata la politica del single shot, ovvero una sola dosa di un vaccino che dovrebbe averne due, si è però verificata l’emergenza della mutazione E484K. L’uso incompleto dei vaccini può favorire l’insorgenza di mutazioni sempre più pericolose, e le varianti che esibiscono questa mutazione a loro volta rispondono meno alla vaccinazione.
In presenza di questa mutazione anche la risposta immunitaria è inferiore. Il concetto che sta emergendo è quello che l’immunità vaccinale indotta debba essere alta e potente. I vaccini devono essere distribuiti in abbondanza e usati correttamente.
Si ipotizza anche un uso combinato di vaccini, ad esempio dopo il single shot del vaccino della Johnson & Johnson si potrebbe fare una dose unica del vaccino a RNA come quello della Pfizer. Per il momento dobbiamo fare uso corretto dei vaccini che abbiamo a disposizione, mentre le case produttrici aggiornano le sequenze di shot di richiamo da fare in autunno.
In Italia abbiamo casi di infezioni in pazienti vaccinati che si infettano e quindi possono trasmettere il virus asintomaticamente. Di conseguenza per ottenere l’immunità di gregge, al contrario del caso di altri vaccini, è necessario raggiungere soglie più alte di vaccinati.
Per queste ragioni, non si possono modificare le politiche di vaccinazione ma potenziarle ed investire in un numero molto alto di vaccini.
Il percorso è lungo: il virus potrà eluderci ancora per un anno, un anno e mezzo, ma il progresso della scienza non gli lascerà scampo.
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Il plasma iperimmune è una delle terapie proposte nell’ambito della pandemia da SARS-CoV-2. Questa strategia prevede l’utilizzo del plasma, cioè la parte liquida del sangue, di pazienti guariti dall’infezione o vaccinati, al fine di fornire ai malati gli anticorpi utili a bloccare il virus precocemente e ridurne gli effetti di malattia. In pratica, vengono sfruttate le immunoglobuline (Ig) neutralizzanti, coinvolte nella risposta immunitaria contro il virus, a scopo terapeutico.
La E484K, è la mutazione di alcune varianti, posseduta anche dalle varianti scoperte in Brasile e in Sudafrica.
Gli anticorpi monoclonali e da plasma iperimmune sembrano essere meno efficaci nel neutralizzare i virus che hanno questa mutazione, e la stessa immunità globale meno efficace nel bloccare la replicazione virale.
Uno studio condotto dal Cambridge Institute of Therapeutic Immunology & Infectious Disease, dall’università di Cambridge e da vari altri istituti, riporta che l’emergere della mutazione E484K rappresenta una minaccia per gli attuali vaccini: la mutazione potrebbe fornire al virus una sorta di via di fuga contro il riconoscimento del sistema immunitario. Pertanto, potrebbe aiutare il virus a diffondersi maggiormente o a evitare l’attacco del sistema immunitario, rendendo eventualmente meno efficaci gli attuali vaccini (che potrebbero anche essere rapidamente aggiornati).
Questo è uno dei motivi per cui gli esperti richiamano l’attenzione sulla necessità di una campagna vaccinale quanto più rapida possibile, per poter proteggere le persone prima che nuove mutazioni ‘sfuggenti’ possano insinuarsi in maniera importante.